di SIMONE IPPOLITI / CAPENA – Impossibile immaginare cosa passò per la testa di Benigno quella notte del 19 novembre 2009. Sentì il click dell’interruttore, ma la luce non si accese, o meglio, quella della stanza sì, ma non quella dei suoi occhi. Improvvisamente, nel giro di poche ore, Benigno era diventato cieco. Una storia che ha dell’incredibile, una vita fatta di perdite dolorose, un’adolescenza sofferta, ma anche di amicizie vere e amori forti. Benigno ce la racconta con tono fermo, deciso, di chi finalmente sguazza in quella serenità rincorsa per tanto, troppo tempo.
“Era il 16 dicembre, ero atterrato da poche ore ad Ho Chi Minh e stavo visitando un parco, ma avevo sete e chiesi indicazioni ad una ragazza di dove potessi trovare un bar. Mi accompagnò e bevemmo qualcosa insieme. Dopo cinque mesi quella ragazza diventò mia moglie”. Benigno era in Vietnam, aveva bisogno di non pensare, di staccare la spina. Nel giro di pochi mesi aveva perso suo padre e il suo migliore amico. Entrambi si chiamavano Angelo. Già orfano di madre, quando aveva 12 anni, Benigno era cresciuto con l’aiuto della nonna che un giorno, stringendolo a sè gli disse: “L’importante è che tu faccia ciò che ti rende felice”.
E la sua felicità, quel ragazzo di Capena, la trovò a 15mila chilometri di distanza, in Thanh, che nell’aprile del 2009 gli regalò la gioia immensa di un altro Angelo, suo figlio, nato in Italia. “Furono mesi bellissimi – racconta – l’intenzione era quella di tornare in Vietnam e aprire un ristorante”. I piani però vennero sbaragliati in quella notte: “Inizialmente pensai che la lampadina si fosse fulminata, di colpo fu buio. Da quel giorno girai mille ospedali per capire cosa fosse successo. La diagnosi fu neurite ottica bilaterale e un paio di anni dopo, scoprii che tutto dipese dalla sera prima. Avevo bevuto del limoncello fatto in casa (in Vietnam si ottiene dalla canna da zucchero ndr) che conteneva metanolo. Probabilmente in quel periodo avevo la mononucleosi e il mio fegato non fu in grado di produrre un enzima per scindere il metanolo che attaccò i nervi ottici. Le possibilità di diventare cieco come lo sono diventato io sono le stesse di fare un sei al Superenalotto, ma con la fortuna che ho delle due opzioni quale poteva capitarmi?”
Quaranta anni spaccati. Fresco di matrimonio e con un figlio di soli 7 mesi. Quel bimbo che, come racconta nella sua tesi “Viaggio verso la resilienza”, scritta insieme al suo amico Carlo, lo abbracciò con tutte le sue forze, singhiozzando, quando lo rivide dopo i giorni passati in ospedale. “Prima di tornare a casa, immaginavo a come potessi suicidarmi. Ma l’assurdo è che per un cieco, non è facile nemmeno questo. Il punto nodale di tutta la mia avventura; della mia cecità, della mia disperazione, della mia accettazione, della mia riabilitazione e della mia resilienza, mi stava aspettando dietro quella porta. Angelo prese due macchinine, una la mise nella mia mano, ma io ero incerto e non mi mossi, lui sbattendo due volte la sua macchinina in terra mi riportò alla realtà obbligandomi a giocare. Ciò che mi voleva comunicare era semplice, io ero il suo papà, dovevo giocare con lui, dovevo prendermi cura di lui e soprattutto non lo potevo abbandonare!”.
Dopo anni difficili, fatti di speranza, analisi, visite in ogni clinica del mondo, Benigno prende coscienza che indietro non si può tornare e finalmente arriva il 2012, un anno speciale, quando riesce ad accedere all’Istituto per ciechi Sant’Alessio. Ma da Capena a Roma, come si fa? “Tu pensa a studiare, che ad accompagnarti ci pensiamo noi” fu il coro dei suoi amici: Lelio, Fabrizio, Antonello, Gianluca, Alfredo. “Lì ho imparato molto. Quando non si vede – dice Benigno – si ha la paura di perdersi nello spazio, non hai punti di riferimento. Ho cominciato ad orientarmi con il bastone e piano piano ho acquistato autonomia”. Un percorso netto, fino ad arrivare al 2017 quando si è laureato con un bel 110 e lode in Scienze della Formazione e ha trovato lavoro presso il Comune di Roma.
“Il 4 ottobre del 2017 ho firmato il contratto. Quel giorno poi mi chiamarono anche da Milano, per avvertire che il cane guida che avevo richiesto era a disposizione, così partii per andarlo a prendere. Penso di essere stato l’unico al mondo che dopo due ore dall’assunzione ha chiesto 5 giorni di ferie!” Ora Benigno lascia ogni mattina Capena e si muove in direzione Roma, i suoi occhi sono quelli di Ursus, il labradror che lo guida. Una nuova vita, fatta giorno dopo giorno di nuove esperienze: “Ho imparato ad ascoltare di più, a non discutere, ma a comprendere. Parlando con chi mi è vicino, sento il calore. La vista ci permette di guardare, ma non di osservare.
Quando conosco qualcuno di nuovo – continua Benigno – mi creo in testa un’immagine. Col tatto, non riesco a delineare bene i contorni, è come se dipingessi un quadro con grandi pennellate. Delle persone di cui ho un ricordo precedente alla perdita della vista, come mia moglie, i miei amici, posso immaginare i tratti mutati: le rughe ed i capelli imbiancati, ma se potessi tornare a vedere almeno per un solo secondo, guarderei il volto di mio figlio. Nella mia testa è stampata l’immagine di quando aveva 7 mesi, ora ha 9 anni. Angelo sì che è cambiato… Dopo quanto mi è successo, la paura più grande fu quella che lui non fosse orgoglioso di me. Il giorno che mi sono laureato però – ricorda Benigno – c’era un bimbo e Angelo gli disse <Hai visto papà quanto è stato bravo…>. Questo ti ripaga di tutto. Angelo è stata l’unica persona che non mi hai mai fatto sentire cieco. Per lui sono semplicemente Papà…”.
Ecco la pagina di QUI NEWS nell’uscita del 22 febbraio 2018
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