Il cinema di Paolo Virzì è fatto di scrittura e di contesto. Storie emotivamente coinvolgenti e acute analisi delle società, personaggi scolpiti a tutto tondo, in stretta relazione con un affresco che è parte inscindibile dell’opera. Vuoi che sia la Livorno operaia, la Brianza del cinico affarismo o l’Italia dei call center. Cosa rimane alla scrittura quando il contesto, non più noto, sparisce? È il problema che deve essersi posto Paolo Virzì sbarcando per la prima volta in America. La risposta trovata: annullarlo. Il road movie è la soluzione più semplice per conciliare tutte le esigenze. Sullo sfondo la strada, il tipico non-luogo; in primo piano i sentimenti, l’elemento della poetica di Virzì che sopravvive quando il resto viene sfrondato; in più un genere caro ai cinefili americani. Due anziani decidono di partire per l’ultimo viaggio sul camper che li ha condotti nei loro giorni più lieti, “The leisure seeker”.
Ella e John sono gravemente malati. Lui, brillante professore, sta perdendo la memoria; lei, che regola la sua vita, ha un male che le sottrae le forze. “The leisure seeker” li aiuterà ancora ad evadere, stavolta da un futuro oscuro, accompagnandoli in un viaggio che ripercorrerà le tappe della loro vita insieme. Una trama semplice, un filo sottile. Virzì si arma di una squadra eccezionale. Al suo fianco i fidati sceneggiatori delle sue ultime opere: Stephen Amidon, gancio per l’America, Francesco Piccolo e Francesca Archibugi. Ma soprattutto loro, i fantastici Helen Mirren e Donald Sutherland.
Grazie a loro quell’esile filo non si spezza. Una trama che poteva facilmente evolvere verso il melenso rimane nei binari di una delicata tenerezza, grazie a felici invenzioni, come la proiezione di vecchie diapositive. Ma è principalmente l’interpretazione delle due star a sostenere il film. Sbalordiscono la capacità di Sutherland di variare i registri, rendendo estremamente naturale l’ondivagare della mente di John e la personalità con cui Mirren tratteggia la forza d’animo di Elle. Eppure complessivamente il film sconta l’apparente intenzione di Virzì di semplificarsi la vita. Tutto è prevedibile nella sua ultima fatica: il genere, la storia di facile presa, persino la colonna sonora, con scontati classici, da Carole King a Janis Joplin.
E gli sceneggiatori, pur bravi, arrancano per riempire i 112 minuti della pellicola, inserendo episodi talora gratuiti o incappando, come nel finale, in qualche caduta nel patetico. Entrare nello star system americano è un passo importante, non solo per Paolo Virzì, ma anche per il cinema italiano. Giusto dosare le scelte, ma forse bisognava osare di più. Senza uno schema, affidarsi alla forza della squadra alla fine non paga. Così è facile, troppo facile.