di ELEONORA FESTUCCIA/FARA SABINA – Stefano, classe 1971, era poco più che ventenne quando lavorava al centro di Roma, in un negozio di souvenir di via della Conciliazione. Un ragazzone di un metro e novanta, giovane e forte; tanto robusto da essere un aiuto su cui contare per la signora disabile che abitava nel palazzo a fianco al lavoro. Tre scalini la separavano dall’ascensore e lui la caricava con sé per quel breve, ma decisivo tratto. “Lì, in quei momenti – confida Stefano a Qui News – il pensiero balenava in testa… se non ci fossi io come farebbe a superare i gradini?” La sua esperienza con la disabilità era confinata allo scorcio di quel palazzo romano, fino al giorno dell’incidente. A 29 anni un verdetto mai immaginato, una doccia gelida che però non ha mai avuto il potere di fermarlo.
Da Roma a Passo Corese – “Nel 2002, dopo tre anni dall’incidente, io e la mia compagna ci siamo trasferiti qui (nella campagna coresina, ndr). A Roma è ovviamente tutto molto più complicato: ad esempio anche per la difficoltà di trovare parcheggio vicino casa; un problema che dove abito attualmente non ho.” Ma anche nei piccoli centri le brutte abitudini cittadine si verificano eccome: “A Passo Corese e a Fiano Romano – racconta Stefano – capita di trovare parcheggi occupati da chi non ne avrebbe diritto. Per non parlare poi della Stazione ferroviaria di Fara Sabina, inaccessibile per chi viaggia in carrozzina. Anche via Garibaldi è un vero disastro: si è costretti a mettersi su strada per non intralciare il traffico, sul lato lungo il quale sono parcheggiate le macchine. Una serie di dislivelli rendono il passaggio difficoltoso e pericoloso.
Invece – commenta con ironia – al Comune di Fara Sabina (sede centrale, ndr) c’è da ridere. Mi è capitato diverse volte di doverci andare per ritirare delle raccomandate; sono arrivato con la macchina fino al parcheggio e grazie alle mie braccia forti ho affrontato in carrozzina la rampa di sampietrini che da lì porta di fronte all’edificio”.
Un percorso non semplice, con le ruote che ballano sul terreno ed una pendenza molto elevata che Stefano riesce a compiere grazie alla sua prestanza fisica, seppur correndo più di un rischio. Ma non finisce qui! All’ingresso ecco che ci si trova di fronte a un maledetto scalino. “Prima c’era una pedana, ma ora è sparita e – continua Stefano – è il massimo quando dopo tutti gli sforzi riesci ad entrare e ti dicono di andare al terzo piano (senza ascensore). Una persona in carrozzina che non deambula, il Comune se lo guarda da fuori. Lo osserva e se ne va”.
Uno spazio che dovrebbe essere inclusivo per eccellenza diventa sinonimo di esclusione, così il palazzo comunale si sveste anche del suo significato. Le giornate sono spesso però scandite da una lista di luoghi facilmente frequentabili che non riservano brutte sorprese, ma anzi offrono bagni a norma, ingressi accessibili e pavimentazione adeguata.
“Certe volte mi piacerebbe lasciare la macchina, andare in giro da solo con la carrozzina, invece c’è sempre la necessità di capire a priori se un posto sia accessibile o meno. La vita è regolata da queste esigenze e dalla propria capacità di adattarsi perché posti perfettamente praticabili non ce ne sono”. Ma una persona disabile deve essere prima di tutto una persona autonoma, e Stefano lo è totalmente, anche per questa sua indiscutibile capacità di superare gli ostacoli e non arrendersi.
“La disabilità ce l’hai addosso, esiste, è con te da mattina a sera. Tace solo mentre dormi, ma appena ti svegli è di nuovo lì. Il segreto però sta nell’adattarsi e solo così certi ostacoli non li vedi neanche più, non ci fai più caso”. Tuttavia capita di rimanere senza parole di fronte ad alcune evidenze che nel 2018 dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti. “Succede ad esempio che – ci fa riflettere Stefano – l’unico cinema di zona sia perfettamente accessibile, ma completamente inadeguato perché costringe una persona disabile a vedere il film solo ed esclusivamente in prima fila”. Avete mai provato ad occupare un posto in quella posizione?
“La gente – sottolinea Stefano – è abituata a pensare al disabile come inabile, nella mente delle persone chi si muove in carrozzina deve essere accompagnato. Ma non è così: l’autonomia prima di tutto”. Al di là di ogni barriera architettonica e di ogni gesto di inciviltà, al di là dei danni e delle beffe che costringono chi vive su una sedia a rotelle anche a dover fare una lunga serie di sacrifici economici, oltre ogni problema e ogni sforzo; quello che Stefano vuole sottolineare è altro: “mai arrendersi di fronte a nulla. La vita può cambiare, ma in realtà a cambiare è solo la prospettiva da cui vediamo il mondo. Ogni mattino offre qualcosa di nuovo e bisogna coglierlo con la massima autonomia; in questo mi ha aiutato molto lo sport: ho praticato per 12 anni nuoto a livello agonistico nella squadra Santa Lucia, un club di prestigio che porta il nome del centro di riabilitazione dove sono stato in degenza dopo l’incidente. Proprio lì – ricorda Stefano – mi hanno fatto comprendere che la vita sarebbe andata avanti. Anche la mia compagna è stata fondamentale. L’ho conosciuta dopo l’incidente e il nostro incontro mi ha in qualche modo trasmesso fiducia e positività per il futuro”.
C’è molto da fare: barriere da abbattere e menti da cambiare. Un Comune inaccessibile, parcheggi occupati da chi non dovrebbe, bagni inagibili, locali inospitali e tanto altro. Ma – lo capiamo dalle parole di Stefano – quello che deve cambiare è prima di tutto la convinzione e la presunzione di vedere in una carrozzina la fine di una vita autonoma. Le barriere più dure a morire sono forse nelle nostre teste? Stefano le ha superate, e noi?