Con “The Place” Paolo Genovese spiazza tutti coloro che, dopo “Perfetti sconosciuti” si attendevano nuove risate. Lo fa con un adattamento della serie televisiva “The booth at the end”, dallo sviluppo originale e dagli accenti drammatici. Un uomo misterioso riceve i suoi clienti seduto al tavolo di un locale. Ognuno ha un desiderio, talora futile, talora drammaticamente pressante: chi spera nella guarigione di un caro, chi vuole salvare un matrimonio; chi vuole trovare Dio, chi una donna da possedere; chi vuole recuperare la vista, chi una somma di denaro. L’uomo ha una risposta per tutti. Ma cambiare il destino ha un prezzo: un compito da svolgere, che distribuisce con beffardo sadismo. Le vicende dei protagonisti impegnati nelle rispettive missioni si intersecheranno con conseguenze paradossali ed estreme. Per il suo ambizioso progetto Genovese mette su una squadra di campioni, ma il rendimento del cast non è uniforme. Mastandrea con il tipico disincanto conferisce il dovuto cinismo all’enigmatico protagonista. Giallini, con una mimica esasperata, finisce sopra le righe.
Alba Rohrwacher è una suora soave, Papaleo è convincentemente surreale. Sabrina Ferilli, pur intrigante, non perde la dizione trascinata. Di maniera la Lazzarini, evanescente la Puccini. Intenso Marchioni, da rivedere Borghi, insolitamente delicato. Nonostante le diversità, analizzando le ultime due opere di Genovese si rileva che la tecnica costruttiva è rimasta la stessa. Il punto di partenza è una (ed una sola) domanda provocatoria. “Cosa accadrebbe svelando la propria vita privata?” si chiedevano gli spettatori di “Perfetti sconosciuti”; “Cosa si è disposti a fare per realizzare i propri desideri?” è il quesito posto ai protagonisti di “The place” e al pubblico.
Ma anche uno (ed uno solo) è lo strumento utilizzato dall’autore: una indubbia facilità di scrittura, che gli consente di creare intrecci abilmente tessuti. Il resto viene ridotto all’osso: lo spazio scenico è minimizzato in un tavolo, i movimenti della macchina si fermano, anche la recitazione viene arginata nell’ambito angusto di un close-up. Genovese frantuma così la struttura filmica ed il suo far cinema giunge ad una negazione dello stesso, ridotto a narrazione che non vuol raccontare, ma solo sorprendere. In effetti ci riesce: se “Perfetti sconosciuti” solleticava, “The Place” intriga. Ma, come il suo diabolico protagonista, Paolo Genovese esige un prezzo: in cambio del suo successo ci chiede di uccidere il cinema.