di SIMONE IPPOLITI/FARA SABINA – Se chiude gli occhi non le vede più. Quelle luci di San Siro che tagliano in due la nebbia in stagioni scivolate via troppo presto, sono solo un ricordo ma non un rimpianto. Ngambe invece è un villaggio tra le montagne del Camerun, è casa. Daniel è un bambino, ma con le idee belle chiare: vuole giocare a calcio. Figlio di un tabaccaio e madre casalinga, ha ben 8 fratelli divisi equamente in maschi e femmine, lui è il più piccolino. In famiglia non ci sono nemmeno i soldi per comprare un paio di scarpini e il papà non è entusiasta del suo sogno sportivo. Ora quel ragazzo ha 30 anni, una storia umana da regalare in esclusiva a Qui News nel corso di una piacevole chiaccherata al campo sportivo di Passo Corese: “Ho ricevuto diverse chiamate, ma ho scelto di venire qui perché è la piazza giusta da dove ripartire. L’obiettivo ora è quello di riprendere in mano il nostro campionato e, in più, alleno i bambini del 2006. A loro voglio insegnare i veri valori di questo sport, ma soprattutto quelli umani”.

Sì, perché Daniel prima di diventare calciatore è dovuto scappare, richiedere asilo e vivere in una comunità. Un bel giorno annuncia alla famiglia di dover partire per l’Italia, perché è stato selezionato dall’Acada Sport tra i migliori giovani camerunensi per partecipare al Torneo di Viareggio. “Per tutta la settimana ho detto che non sarei tornato, avevo fame di calcio, volevo una possibilità. A casa invece non credevano nemmeno che partissi e infatti nessuno venne all’aeroporto, solo alla fine si affacciarono mio fratello e mia sorella, ancora increduli”. È la prima volta che Daniel sale su un aereo, si lascia alle spalle casa, amici, affetti. Il torneo va bene, ma questo importa relativamente. “Se non scappiamo adesso, domani ci tocca tornare in Camerun” – è con questa frase che Daniel si rivolge a Paul, compagno di squadra, anche lui in cerca di gloria. “Da qui è più lontana Roma o Milano?” chiedono ad una passante. La signora indica il nord e con 20 euro in tasca e uno zainetto sulle spalle i due arrivano a destinazione dopo aver dormito una notte ad una pompa di benzina. “Il giorno dopo siamo andati in Questura raccontando di essere arrivati in nave…”. I poliziotti non se la bevono più di tanto e esclamano: “Ma dove è il mare qui…?”. Dopo un paio di giorni i ragazzi vengono richiamati e ad accoglierli, oltre alle divise, ci sono anche i passaporti lasciati all’albergo. “Allora voi giocate a calcio…”.

Daniel e Paul vengono affidati ad una comunità di Novara. Non hanno la possibilità di allenarsi e vivono alla giornata. “Ma dove possiamo giocare?” – chiedono in giro e alla fine trovano spazio in terza categoria con il “Santa Rita”. “Conobbi Renato, un uomo di calcio che ci diede una grande mano. Addirittura – racconta con emozione Daniel – ci comprò il materiale necessario. Poi si accorse delle mie qualità e contattò Giannini, osservatore dell’Inter, e mi dissero che avrei fatto un provino”. Daniel torna nella comunità e dà la grande notizia: nessuno gli crede, come quando annunciò in Camerun la sua partenza per l’Italia. “Non avevo niente da perdere. Mi presentai al campo e giocai il primo tempo. Si avvicinarono Baresi e Casiraghi e mi dissero: “Noi ti prendiamo…”. Il ragazzo si allena intanto allo Sparta, in Serie D, in attesa del nulla osta: dopo un anno arriva anche l’ok da parte della Federazione, Daniel entra nella Berretti dell’Inter e si trasferisce a Milano. Brevemente ha la possibilità di aggregarsi alla Primavera e un giorno, per la mancanza di vari nazionali, viene “invitato” ad allenarsi con la prima squadra.

Gli occhi di un ragazzo di 17 anni, che fino a 12 mesi prima avevano fotografato solo un sogno, ora si trovano a catturare immagini reali: “Vieri, Adriano, Cambiasso, Zanetti, Toldo. Me li sono trovati tutti di fronte. In panchina c’era Roberto Mancini che mi fece giocare qualche minuto contro lo Spezia. “Sei nuovo? – mi chiese – Bravo, complimenti”. Daniel viene convocato a sorpresa qualche giorno dopo per la finale di Coppa Italia a San Siro contro la Roma decisa da una punizione di Mihajlovic. Il ragazzo non scende in campo, ma durante la premiazione è lì, a farsi mettere al collo una medaglia che vale tanto, troppo. Ma a casa ora cosa dicono? È questo il bello: “Non avevo detto niente a nessuno. In famiglia non sapevano che giocassi a calcio, nell’Inter. Lo scoprirono solo quel giorno dalla televisione, quando la telecamera mi inquadrò per qualche secondo, poco prima di alzare la coppa insieme al resto della squadra”. L’esordio in campionato, in Coppa Italia e in Champions saranno i punti più alti della carriera di Daniel: le battute con Veron, suo idolo, il rapporto intenso con Zanetti, vero leader, e il grande rispetto per Il Mancio. Mentre è in prestito alla Pistoiese però dalla sua terra arriva una brutta notizia, la perdita del padre: “Mi manca tanto. La cosa più assurda è che non mi ha mai visto giocare a calcio. Quando sono tornato in Camerun però gli ho regalato la mia maglia con il 55 sulle spalle, ma soprattutto con scritto Boumsong, il mio cognome, il suo nome. Mi disse che era fiero di me. La sua morte è stata un duro colpo, mi sono sentito come se mi mancasse un pezzo”. Gli occhi che mirano in alto come a trattenere qualche lacrima, fanno spazio al sorriso nel raccontare il presente: “Mia moglie e mio figlio vivono a Milano, ogni fine settimana li vado a trovare. Ora la testa è qui in questo fantastico ambiente. Mi trovo bene a Passo Corese anche se sono arrivato da un paio di settimane. Il futuro? Un giorno tornerò in Camerun. Mi piacerebbe insegnare tutto quello che ho imparato qui in Italia”.

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