di LUCA PACCUSSE/ 8 agosto 1956 – Nella miniera di carbone di Bois du Cazier, appena fuori la cittadina belga di Marcinelle, si verifica uno degli incidenti più gravi di questo genere. Dei 262 minatori deceduti per le ustioni, il fumo e i gas tossici, 136 erano nostri connazionali. La forte presenza di manodopera italiana in questo settore industriale era dovuto ad un accordo siglato tra Belgio e Italia nel 1946: esso prevedeva l’invio di 2.000 operai a settimana, 50.000 in tutto, per lavorare nelle miniere in cambio di carbone a basso costo per il nostro paese, uscito da poco dal secondo conflitto mondiale. Nel corso di un decennio più di 140.000 italiani emigrarono per lavorare nelle miniere della Vallonia. Il Belgio infatti, le cui industrie avevano subito relativamente pochi danni durante la guerra, scarseggiava di manodopera per sostenere la produzione. O meglio, scarseggiavano i belgi che accettavano condizioni di lavoro pessime, cosa di cui si fece poco accenno agli italiani per invogliarli a partire. Una vita tutt’altro che semplice quella in miniera: i “musi neri”, come venivano soprannominati i minatori per via della fuliggine impressa sui visi, dovevano lavorare a ritmi sostenuti sotto terra scavando e costruendo gallerie mentre respiravano e inghiottivano polvere. Molti di loro erano totalmente impreparati provenendo da altri contesti e l’impianto di Marcinelle non dava garanzie di sicurezza. In funzione dal 1830, dotato di due sole vie d’uscita e con strutture interne in legno, quindi infiammabili, era sicuramente una struttura datata, bassi i livelli di manutenzione.
La stessa vita quotidiana degli italiani emigrati era precaria: le abitazioni “convenienti” loro assegnate non erano altro che baracche destinate precedentemente ai prigionieri di guerra tedeschi. In legno o lamiera, senza acqua, senza bagno. Masse di italiani si ritrovarono così in un altro paese, senza conoscere la lingua, in condizioni igienico-sanitarie discutibili, emarginati socialmente dalla popolazione belga. Indietro non si poteva tornare, pena l’arresto, se non dopo un anno, come stabilito dal contratto capestro. È in questo contesto che si sviluppa l’incidente, alla cui origine vi fu una incomprensione tra gli operai. Quella mattina, un montacarichi con vagoncino carico di carbone, venne fatto partire quando non era ancora il momento, urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa e provocò così un incendio sotterraneo. Le fiamme si estesero alle gallerie superiori, mentre a 1.035 metri sottoterra, i minatori venivano soffocati dal fumo. Sette operai riuscirono a risalire (saranno 12 i sopravvissuti in totale). Solo il 22 agosto, dopo due settimane, venne dichiarato ciò che si temeva: “Sono tutti morti”. Una tragedia che coinvolse operai di diverse nazionalità ed età (il più giovane aveva 14 anni). Un tributo di sangue annunciato dalle morti o dagli infortuni di minatori verificatisi periodicamente prima di quella maledetta giornata. Rischi debitamente nascosti ai nostri connazionali, che da quel momento però verranno visti con minore diffidenza dalla popolazione locale e progressivamente integrati nella società belga, che oggi conta tanti discendenti di quei migranti. Un’integrazione pagata a caro prezzo.